Le malattie psicosociali: stress lavoro-correlato, mobbing, burnout

La disorganizzazione interna di un’azienda può provocare l’insorgenza di diverse malattie professionali che riguardano perlopiù la sfera psicosociale del lavoratore. Queste prendono il nome di stress lavoro-correlato, mobbing e burnout.

E’ doveroso però fare una distinzione fra di esse, anche perché solo la valutazione della prima è un obbligo normativo. 

Si definisce stress uno stato di disequilibrio tra le proprie capacità e le richieste avanzate nei suoi confronti ed è la risposta del nostro corpo alla richiesta di adattamento all’ambiente esterno. Rappresenta inoltre la seconda malattia professionale più manifestata nell’Unione Europea, subito dopo il mal di schiena.

Le cause sono molte e di diversa natura: sovraccarichi di lavoro, organizzazione scarsa o insufficiente, relazioni interpersonali povere o violente, ambienti rumorosi e addirittura il microclima aziendale.

Alcuni studi dimostrano come lo stress abbia un effetto negativo sulla produttività. Il lavoratore può presentare diversi sintomi classificati su tre livelli:

  • Reazioni fisiche, come emicranie, problemi di sonno e di peso, stanchezza, aumento della pressione;
  • Reazioni psicologiche, come umore depresso, ansia, difficoltà di concentrazione;
  • Reazioni comportamentali, come assenze ingiustificate, consumo di caffè o medicinali, sbalzi di umore.

E’ però importante sottolineare che, trattandosi di sintomi aspecifici, la loro manifestazione non deve essere necessariamente collegata a un problema di stress.

Il lavoratore affetto da questa malattia può commettere errori, è più esposto a rischio infortuni, è più aggressivo. Tale comportamento si riflette negativamente sull’intera organizzazione aziendale, sia a livello ambientale con una diminuzione del senso di appartenenza e l’aumento della conflittualità, sia a livello di costi per gli indennizzi o spese mediche.

Legato allo stress lavoro-correlato, pur non essendo una malattia, il mobbing può esserne la causa. Questo termine indica un’azione compiuta con lo scopo di escludere un membro del gruppo, alleandosi contro di esso. Si può distinguere in mobbing verticale se le vessazioni provengono da un superiore, mobbing orizzontale se invece provengono da un collega.

Secondo il modello redatto dallo psicologo tedesco Heinz Leymann, il mobbing è un processo che avviene per quattro gradi:

  1. Conflitto quotidiano: il conflitto nasce normalmente a causa di scontri di caratteri, di opinioni ed abitudini diverse, a causa di invidia o competizione.
  2. Inizio del mobbing: cominciano le vessazioni psicologiche in modo sistematico ed intenzionale.
  3. Abusi: la violenza diventa di dominio pubblico, mentre la vittima inizia ad assentarsi ripetutamente, dando il via alle indagini sul suo conto da parte dell’amministrazione del personale.
  4. Esclusione: lo scopo del mobbing è raggiunto tramite licenziamento o dimissioni della vittima; nei casi più gravi si possono verificare suicidi oppure invalidità permanenti.

Secondo il metodo Ege, invece, per poter parlare di mobbing devono verificarsi precise condizioni: il conflitto deve verificarsi sul posto di lavoro almeno un paio di volte al mese per una durata di almeno sei mesi. Inoltre, devono essere intrapresi diversi tipi di attacco, la vittima deve essere in condizione di inferiorità, il conflitto deve essere sempre in crescendo fino ad ottenere l’esclusione del vessato.

Il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro non specifica le indicazioni per la valutazione del rischio mobbing, ma è sicuramente da tenere in considerazione come causa dello stress lavoro-correlato.

La valutazione dello stress è fondamentale anche per prevenire il rischio di insorgenza della sindrome del burnout. Questo termine (letteralmente bruciato, esaurito) si riferisce a tutte quelle professioni in cui le relazioni interpersonali e il forte coinvolgimento emotivo sono il fondamento del lavoro.

Questi lavoratori sono a rischio di una duplice fonte di stress: il loro personale e quello della persona aiutata. Se queste dinamiche non sono ben gestite, possono portare alla sindrome del burnout, che si può definire come “l’esaurirsi graduale delle risorse psico-fisiche dell’operatore che cerca di adattarsi alle difficoltà della propria attività lavorativa”.

Come il mobbing, il burnout è un processo che si divide in tre fasi e coinvolge tutta l’azienda, come descritto dallo storico americano Harold F. Cherniss:

  1. La percezione della situazione: l’operatore prova un senso di disagio conseguente alla differenza tra le proprie risorse e le richieste esterne;
  2. Emotività negativa: il lavoratore è perennemente in ansia e teso;
  3. Coping: di fronte a una situazione stressante, il soggetto elude il problema non interessandosene.

Tutto ciò fa capire quanto la valutazione del rischio da stress lavoro-correlato non sia solo un obbligo normativo, ma un aiuto all’azienda stessa che, creando una vera e propria cultura, inserisce il benessere organizzativo tra i suoi valori.

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